Fernanda Gellona, Direttore generale, Confindustria Dispositivi Medici, si è mostrata disponibile a raccontare il punto di vista dell’industria su quello che in questi giorni, è il giallo delle mascherine chirurgiche, grandi assenti nella lotta contro il Covid19. L’industria, nel prendere la parola, disegna un quadro in cui solo delle scelte errate, fatte nell’ambito delle politiche industriali e degli acquisti, hanno determinato la mancanza di questo dispositivo medico in un momento di emergenza come quello che stiamo vivendo.
Un dispositivo medico, come le mascherine chirurgiche, oggi così importante per contrastare la diffusione del Coronavirus perché è stato, ed è così difficile da reperire?
In Italia, a causa dei prezzi portati ad un livello molto basso, la produzione di questi dispositivi medici non esiste più già da diverso tempo. Tutta la produzione si è spostata in Cina, principalmente ad Wuhan, mentre sul nostro territorio sono rimaste solo le aziende che distribuiscono il prodotto cinese. La Cina, ormai da diversi anni, produce mascherine chirurgiche non solo per noi, ma per tutta l’Europa. Per far chiarezza inoltre torno a ripetere che quasi tutta la produzione di questo dispositivo medico è concentrata a Wuhan, nella zona quindi da cui è partita la pandemia. Ecco perché, scoppiato il Coronavirus, la produzione si è bloccata a fronte, almeno nel nostro paese, di una totale assenza di riserve.
Cosa intende per totale assenza di riserve, vuol dire che i nostri magazzini sono vuoti? Perché?
I tagli alla sanità hanno prodotto quelle che potremmo definire nuove scelte nel fare acquisti. Per risparmiare non si compra più prevedendo delle riserve, gli ordini vengono fatti man mano che gli armadi si svuotano. La totale assenza di riserve ha prodotto quello che abbiamo vissuto in Italia nel momento in cui la Cina ha interrotto la sua produzione. A fine pandemia spero che, sulla base dell’esperienza vissuta, si arrivi a fare una lucida riflessione sulle conseguenze dell’esternalizzazione completa di una produzione e su un sistema di gare d’appalto, per lo più giocate solo sul prezzo più basso, che produce, tra l’altro, proprio l’esternalizzazione.
Ad un certo punto le mascherine chirurgiche sono riapparse sul mercato ma con prezzi a dir poco inaccessibili per l’uso che se ne dovrebbe fare contro il Covid19.
Questa è la conseguenza della più antica legge del mercato: a fronte di un forte incremento della domanda è salito il prezzo. Quando la Cina ha potuto riaprire la sua produzione si è trovata davanti a una grande richiesta del mercato ed ha alzato i prezzi.
Ci sono state delle aziende che hanno cercato di riconvertire la loro produzione, per portare mascherine italiane sul mercato.
Si, e a mio avviso giustamente. L’Italia ha deciso di promuovere la riconversione e così molti industriali hanno pensato di trasformare la loro attività tornando a produrre questi dispositivi medici, in Italia. A questo punto è stato però inevitabile dover fare un distinguo tra mascherine chirurgiche e non chirurgiche; con marchiatura e senza marchiatura; per capire bene cosa si andava a produrre e, non posso nascondere, che tutto ciò ha creato tanta confusione. Le mascherine chirurgiche sono dispositivi medici, e come tali per circolare sul mercato devono avere il marchio CE. Poi è arrivata una deroga che ne permetteva la diffusione anche senza marchio CE, previa però la validazione dell’Istituto superiore di sanità. Tutte queste regole, che molti vedono solo come mera “burocrazia” sono in realtà norme che vengono applicate a tutela della nostra salute.
Sono quindi i tempi di validazione a rallentare l’arrivo del prodotto sul mercato?
No, i tempi di validazione sono velocissimi, massimo 3 giorni. Questo è uno dei punti su cui si è generata tanta confusione. La validazione è velocissima, sono le aziende che spesso non hanno fornito la documentazione corretta. Solo per questo, a fronte di circa 700 domande presentate all’Istituto superiore di sanità sono pochissime le imprese che hanno avuto il via libera alla produzione e alla commercializzazione del prodotto. Tale situazione rappresenta l’ulteriore conferma del fatto che una mascherina chirurgica non è un prodotto banale, ma è un dispositivo medico pensato per la salvaguardia della nostra salute.
In questi giorni la querelle si è spostata però sul prezzo. Arcuri chiede una distribuzione al costo di 0,50 centesimi, ma il mercato sembra far di nuovo un passo indietro di fronte a tale richiesta.
L’Istituzione ha pensato di chiudere un accordo con un pool di aziende italiane garantendogli l’acquisizione di tutta la produzione. Si è pensato che in tal modo il prodotto, fatto e commercializzato in Italia potesse mantenere un prezzo molto contenuto. Soluzione, a mio avviso assolutamente legittima da parte dello Stato, tanto più in una situazione di emergenza come quella che stiamo vivendo. Il problema è sorto quando, stretto l’accordo, sempre l’Istituzione ha imposto il prezzo delle mascherine: (e lo ha potuto fare perché viviamo un’emergenza altrimenti voglio ricordare che il nostro è un mercato libero, in cui il prezzo è per lo più stabilito con gare pubbliche) l’ormai noto 0,50 centesimi. I risultati sono nelle cronache di questi giorni, ma in definitiva quello che si è prodotto è un nuovo arresto della produzione e della commercializzazione perché il prezzo imposto non copre le spese. La Spagna, ad esempio, ha fatto una cosa simile, ma ha imposto un prezzo di 0,90 che ha già molto più senso. Il Commissario, invece ha voluto uscire con un diktat di grande impatto mediatico ma il risultato, secondo noi, è stato una sorta di boomerang visto che le mascherine non sono arrivate. Forse un incontro con l’associazione di categoria per conoscere meglio il mercato e pianificare le azioni avrebbe potuto essere utile.
Parlando di distributori, si è poi ragionato di prevedere dei rimborsi per i farmacisti.
Si, è stata avanzata l’eventualità, per i farmacisti, di essere rimborsati della differenza del costo da loro sostenuto. Discorso però che per esempio, non è stato fatto ai distributori. Noi abbiamo preso contatto con alcune aziende proprio per avere un’idea chiara della situazione e ci siamo sentiti dire che solo per rientrare nei costi di spesa, si dovrebbe arrivare alla cifra di 0,60/0,70 centesimi a fronte dello 0,50 imposto. A questo punto è chiaro che Arcuri ha fatto uno sbaglio di valutazione importante. Non voglio far finta di non sapere che ciò può esser stato anche prodotto da alcune speculazioni inaccettabili che ci sono state, speculazioni inaccettabili soprattutto per noi, cioè per quelle imprese serie che non hanno speculato. Siamo stanchi di passare sempre per quelli che hanno un comportamento un po’ “furbesco” perché in realtà di aziende serie che non hanno speculato, ce ne sono tantissime e continuano a produrre e distribuire nonostante abbiamo un monte crediti con la Pubblica amministrazione pari a circa 2 miliardi. Quella che stiamo vivendo è una situazione di emergenza e noi non stiamo certo chiedendo aiuti o finanziamenti, ci basterebbe soltanto che ci pagassero il dovuto e questo rappresenterebbe un primo grande segnale di rispetto, mentre l’atteggiamento avuto dal commissario Arcuri ovviamente non si può leggere come un segnale di rispetto.
Un’ultima riflessione vorrei farla sul tipo di domanda che è stata rivolta al mercato. Si dice che sia mancata una regia attenta. Vero?
Direi proprio di sì, è mancata, e cerco di spiegarle perché. Protezione Civile, Istituto superiore di sanità, Regioni, Commissario straordinario tutti hanno iniziato a chiedere gli stessi dispositivi, magari per la stessa struttura, in modo assolutamente disordinato. Perché se un soggetto chiede dei dispositivi per un ospedale, ma poi ne arriva un altro e chiede sempre dei dispositivi per quell’ospedale e poi ancora un altro e ancora un altro fanno la stessa richiesta, il mercato percepisce che il bisogno di quell’ospedale si sia quadruplicato cosa che nella realtà non è poi vero. A tal proposito noi abbiamo più volte segnalato come si stesse generando il rischio di produrre una domanda ben superiore ai reali bisogni e, come questo modo di procedere, potesse mandare in confusione sia il mercato che le nostre aziende che, voglio ricordarlo, appartengono ad una filiera che genera PIL.
di Enza Colagrosso