Un nuovo approccio al partenariato pubblico-privato per la gestione strategica degli investimenti in sanità

di Veronica Vecchi *, Niccolò Cusumano**, Alessandro Furnari ***

Politiche restrittive di bilancio hanno portato a una contrazione sostenuta della spesa in conto capitale nel Ssn, che da un media del 4,2% della spesa totale nei primi dieci anni del 2000, è scesa al 3% tra il 2011 e 2019, per toccare un picco negativo del 2,6% in quest’ultimo anno. In termini assoluti gli investimenti sono tornati nominalmente allo stesso livello del 2000, senza considerare gli effetti dell’inflazione. Considerando i soli investimenti edili, il calo è ancora più marcato. In questo caso, stando ai dati forniti da Eurostat, nel 2018 si è toccato in valori assoluti il minimo ventennale, raggiungendo 1,177 miliardi di euro, pari al 41% della media degli investimenti annui nel periodo 1998-2018. Nell’ultimo decennio sono stati realizzati investimenti di valore superiore a 50 milioni per un totale di 2,5 miliardi e, guardando alle manutenzioni, la spesa per investimenti è oramai superata da spesa corrente. Nel triennio 2017-2019 la spesa per manutenzioni ordinarie e straordinarie ha cubato, infatti, 1,4 miliardi l’anno, che si traduce in 733 €/m2 per manutenzioni ordinarie e 660 €/m2 per manutenzioni straordinarie. Questo, da un lato, è sinonimo di costi manutentivi sempre più elevati per garantire la disponibilità e la sicurezza degli edifici; dall’altro, evidenzia il trend consolidato di sottofinanziamento della spesa per investimenti.
Questa situazione ha comportato un progressivo invecchiamento del patrimonio immobiliare – e tecnologico – del Ssn che si traduce, nel breve periodo, nella difficoltà di garantire standard tecnici di sicurezza adeguati e nell’aumento delle spese manutentive e di gestione per continuare a garantire l’erogazione del servizio. Nel medio e lungo periodo, vi è il rischio di compromettere seriamente la capacità di fornire servizi sanitari adeguati ai bisogni di salute emergenti e in generale la sostenibilità non soltanto economica, ma anche ambientale e sociale, del Ssn. Recenti stime di SDA Bocconi elaborate per la Banca Europea degli Investimenti quantificano in circa 32 miliardi il gap di investimenti nel settore, tre volte la dotazione di risorse finanziarie derivanti dal Pnrr per adeguamenti sismici, tecnologie sanitarie, case e ospedali della comunità. Infatti, circa il 58% del patrimonio immobiliare del Servizio Sanitario Nazionale è stato realizzato prima del 1970 (in figura 1 il dettaglio per regione) e proprio per questo, si tratta di un patrimonio tra i più energivori a livello comunitario, oltre che scarsamente coerente con le trasformazioni in atto nei modelli di servizio. Sul fronte delle tecnologie, i dati di Confindustria, mostrano come oltre il 50% delle apparecchiature abbia ormai superato la vita utile. La sanità italiana ha anche un patrimonio non funzionale e scarsamente produttivo in un’ottica di sistema, che rappresenta circa il 38% dei metri quadri totali (figura 2).
La sanità italiana si trova dunque di fronte a una grande sfida, che può essere declinata in cinque punti:
a) ripensare la rete, con investimenti, materiali e immateriali, e servizi per supportare l’implementazione dei nuovi modelli assistenziali in ottica “one health”, anche in considerazione dell’emergere di modelli ibridi di assistenza in presenza e a distanza in risposta al crescere della cronicità;
b) sfruttare pienamente e rapidamente le risorse disponibili;
c) rendere il patrimonio più sostenibile garantendone la neutralità e la resilienza climatica, in coerenza con gli obiettivi climatici dell’Ue e i principi di efficienza energetica al primo posto e di non arrecare un danno significativo;
d) ottimizzare l’utilizzo delle risorse, anche facendo leva sulla straordinaria disponibilità di liquidità privata, pari al Pil nazionale, e alla propensione del 30% dei risparmiatori a investire in migliori servizi pubblici (come emerge da una ricerca dell’Associazione Italiana del Private banking, 2019);
e) colmare un gap di competenze nella programmazione, realizzazione e gestione di investimenti, dopo un decennio in cui la macchina si è sostanzialmente fermata.
A fronte di queste sfide, una possibile risposta può arrivare da contratti di Partnership Pubblico Privato (PPP), il cui utilizzo in sanità ha sempre destato non poche preoccupazioni, che nei fatti ne hanno ostacolato l’utilizzo e quindi la sua evoluzione, perdendo, quindi, anche l’occasione di stimolare un apprendimento di sistema. Infatti, le severe criticità di alcune operazioni di concessione per la realizzazione di nuovi ospedali, acuite poi, in un altro settore, dal crollo del ponte di Genova, hanno deteriorato e politicizzato la relazione pubblico-privato. Alcuni timidi tentativi sono stati portati avanti per il potenziamento delle tecnologie sanitarie, molti dei quali hanno subito uno stop per veti politici e avversione al rischio da parte del management sanitario.
Il PPP può trovare applicazione, per quanto riguarda il patrimonio immobiliare, sia per la realizzazione di Case e Ospedali della Comunità, sia per la realizzazione di interventi di efficientamento energetico o per la realizzazione/ristrutturazione/rifunzionalizzazione di ospedali base o di I/II livello, oppure per la realizzazione di poli per ospitare servizi da dedicare a bacini sanitari. Poi, ovviamente, il PPP può essere applicato anche alle tecnologie e agli investimenti per la transizione digitale, consentendo di spostare il focus dall’investimento al servizio.

Perché il PPP?
La necessità di un maggior coinvolgimento del settore privato non dovrebbe derivare, come in passato, solo da considerazioni di tipo macroeconomico, ovvero dalla mera possibilità di generare addizionalità finanziaria e realizzare investimenti che non configurano debito pubblico (off-balance sheet), ma anche da fattori di tipo microeconomico, legati alla potenziale maggior efficienza e produttività del settore privato, grazie anche a meccanismi di incentivazione contrattuale, che oggi trovano fondamento nell’istituto giuridico della concessione. Infatti, tra i principali vantaggi documentati del PPP vi è la possibilità di trasferire in modo efficiente il rischio legato alla realizzazione dell’investimento in tempi e costi certi, che rappresenta un elemento imprescindibile per l’attuazione del PNRR, ma anche per offrire risposte adeguate in modo tempestivo ai territori. In particolare, poiché l’operatore economico può incassare i ricavi (canone di disponibilità, generalmente, per il settore sanitario) solo al termine della fase di investimento, esso ha un forte incentivo a realizzare l’investimento in tempi molto più celeri rispetto a un appalto tradizionale e nel rispetto dei costi preventivati. Il PPP, oltre ai rischi legati alla fase di costruzione/investimento, consente di trasferire anche i rischi legati alla gestione. È proprio in relazione alla gestione che devono essere indentificati, caso per caso, ambiti di responsabilità per l’operatore economico, al fine di assicurare al Ssn il conseguimento dei suoi obiettivi strategici legati al PNRR. Quanto più l’applicazione del PPP si sposta da investimenti materiali a investimenti digital o tecnologici o ai servizi, tanto più sarà possibile sfruttare le sue potenzialità, responsabilizzando l’operatore economico su risultati diversamente non possibili con logiche tradizionali di acquisto. Il Pnrr per la prima volta stabilisce come obiettivi non tanto la spesa di risorse ma il conseguimento di risultati in termini di equità, accesso alle cure, etc. Il PPP, quando ben strutturato, consente di acquistare risultati e non solo investimenti, che sono appunto meramente funzionali all’erogazione di un servizio. Tuttavia, va prestata attenzione a non chiedere al mercato di responsabilizzarsi su risultati che dipendono comunque dal Ssn. Da questo punto di vista, i nuovi contratti di PPP dovrebbero essere impostati su logiche di co-progettazione e co-responsabilizzazione. Infatti, il PPP non deve essere inteso come uno strumento di outsourcing, ma piuttosto di insourcing. In questo modo il PPP diventa quindi strumento per attuare un modello di collaborative governance, tanto necessario in un contesto che deve affrontare molte sfide, rispetto a cui le sole risorse pubbliche, soprattutto in termini di capacità, non sono sufficienti.
Questi obiettivi di tipo strategico sono legati a incentivi; in assenza di adeguati incentivi, i modelli di PPP saranno inefficienti e consentiranno di generare solo addizionalità finanziaria con benefici significativamente inferiori (e quindi costi maggiori) per la società. Ma è proprio da una concettualizzazione più strategica e ambiziosa del PPP che ne deriva la sua convenienza. L’appalto tradizionale non solo non prevede un sistema di incentivi adeguato per orientare l’operatore economico verso il raggiungimento di obiettivi di tipo strategico, ma soprattutto si basa sul cosiddetto meccanismo unbundled, ovvero la separazione della componente dell’investimento dalla componente della gestione, che non consente, in presenza di risorse e competenze limitate di project management nelle Amministrazioni pubbliche, di ottimizzare la fase della costruzione con l’obiettivo di generare maggiori efficienze e qualità in fase di gestione.
Oggi rispetto al passato la Direttiva Concessioni (CE 23/2014), che rappresenta il riferimento giuridico dei contratti di PPP, chiarisce la necessità di allocare all’operatore economico il cosiddetto rischio operativo; pertanto, un nuovo approccio al PPP deve passare attraverso la costruzione di contratti caratterizzati dalla definizione di un sistema ambizioso di parametri di risultato legati a meccanismi di decurtazione nel caso questi risultati non siano conseguiti. Ciò in passato non accadeva e nella maggior parte dei casi i contratti di PPP stipulati erano dei meri contratti “ombrello” di tradizionali contratti di appalto (per progettazione, costruzione e gestione).
Un utilizzo più ambizioso del PPP richiede un importante sforzo di programmazione per la definizione di una pipeline dei progetti, per consentire al mercato di organizzarsi e di rispondere al meglio, mettendo in campo le migliori competenze, piuttosto che utilizzare un approccio “mordi e fuggi”. Infatti, quando si presenta al mercato un piano certo di investimenti, da realizzare in tempi certi, il mercato non solo si mobiliterà con maggior interesse e per certi aspetti fiducia, ma sarà possibile anche ridurre i costi di transazione legati alla strutturazione dei contratti, per il semplice motivo che gli investimenti necessari per la strutturazione dei contratti, per l’analisi dei rischi, per le transazioni finanziarie saranno spalmati su un numero più significativo di progetti.
Il Codice dei Contratti, le Direttive comunitarie e il corpus di soft law offrono diverse opportunità procedurali e contrattuali per strutturare contratti di PPP e le conoscenze oggi sono molto più strutturate per utilizzare in modo virtuoso queste soluzioni, superando le criticità del passato.
Il PPP offre inoltre, altri due importanti vantaggi:
– un adeguato grado di flessibilità: il rischio che molte aziende sanitarie non siano in grado di impiegare le risorse del PNRR aumenta a sua volta il rischio di un loro de-commitment; il PPP offre un perimetro contrattuale flessibile in grado di catturare queste risorse, con modifiche ai piani economico-finanziari attuabili in poche ore, se previste contrattualmente;
– una crescita del mercato privato, rendendolo più competitivo e innovativo, proprio perchè al mercato vengono chieste soluzioni e non meri prodotti e soprattutto una co-responsabilizzazione sul risultato.

La sanità come buyer sofisticato
Per sfruttare pienamente le opportunità del PPP nel perimetro del PNRR è fondamentale che gli attori del Ssn (su tutti, Regioni, Aziende, Centrali di committenza) siano in grado di agire come “buyer sofisticati”, in grado di dialogare con il mercato per chiedere soluzioni a problemi di natura strategica, assumendo la postura di investitori di lungo termine. Questo richiede un cambio di paradigma deciso nelle logiche decisionali, ma anche nelle metriche di rendicontazione, che sottendono i piani di investimento, al fine di tenere assieme dimensione clinica, ambientale, finanziaria e macro-economica. Questo significa passare da un concetto di Value for Money, a un nuovo e più ampio framework, il Value for Society, che risponda a logiche di collaborative governance, facendo leva sulle competenze e alle risorse del mercato, incanalandole nell’implementazione del PNRR attraverso modelli di co-progettazione e co-gestione.
Questo cambiamento renderebbe, inoltre, possibile sfruttare un mercato e investitori sempre più coinvolti e propensi a combinare ritorno finanziario con logiche d’investimento di tipo impact investing o ESG. La Commissione Europea in questo senso sta facendo da apripista. Avere incorporato in modo esplicito obiettivi di policy trasversali, come quello del non arrecare un danno significativo così come definito dal Regolamento sulla tassonomia degli investimenti sostenibili, sta rendendo possibile collocare sul mercato green bond per raccogliere i capitali necessari a finanziare Next Generation EU, dando un’ulteriore spinta al consolidamento degli investimenti secondo logiche ESG.
L’adozione del paradigma decisionale Value for Society è essenziale anche per una valorizzazione del patrimonio non funzionale. Molto di questo patrimonio non solo è vetusto, ma costituisce ormai una vera e propria passività, non solo per la sanità ma anche per l’intera collettività. È impensabile che questo patrimonio possa essere una cosiddetta “cash cow”, ovvero che sia in grado di liberare risorse, perlomeno nel suo stato attuale e nel contesto in cui si trova. Interiorizzare nei processi decisionali di investimento e gestione del patrimonio strategie ispirate alla network governance, basate su alleanze tra istituzioni pubbliche e private, consentirebbe di estendere il perimetro di intervento per cui gli asset non sarebbero più solo funzionali al servizio sanitario, ma contribuirebbero alla rigenerazione economica e sociale del territorio. In questa logica le aspettative finanziarie non possono che essere dettate da criteri di pazienza, esattamente come avviene per gli investitori filantropici o di impatto che sono appunto considerati investitori pazienti. Solo in questo modo, a nostro avviso, quella che è nei fatti una liability nello stato patrimoniale d’azienda può diventare un asset per la società.
Tutto questo richiede inevitabilmente una nuova postura manageriale, non solo nel pubblico ma anche nel privato. Nel pubblico, in particolare, vi è la seria necessità di investire su manager, quali leader attuatori, che, posizionati nei diversi punti decisionali del Ssn, lungo l’asse centro-territorio, condividano non solo lo stesso senso dell’urgenza, ma anche un Dna composto di vision, leadership, competenze di project management che favorisca rapidità nelle scelte e innovazione nei modelli attuativi e un dialogo con il mercato. La sensazione, oggi, è che tutti gli ingredienti siano a disposizione, in primis risorse, una roadmap con chiari obiettivi, un mercato che scalpita ed è desideroso di collaborare per sperimentare nuove soluzioni. Mancano però chef che sappiano combinare questi ingredienti in portate nuove, anche solo per la curiosità di testare nuovi menù. Esperimenti che, anche in caso di insuccesso, sarebbero comunque più utili del non provare neanche a cambiare per risolvere i problemi. Oggi serve il coraggio di modificare la postura agli investimenti e agli acquisti, delineando un perimetro con pochi principi guida e favorendo la sperimentazione dal basso.

Patrimonio_Asl

Direttore scientifico Osservatorio Masan, SDA Bocconi
** Direttore Programma Perfezionamento Masan, SDA Bocconi
*** Cergas-SDA Bocconi

Fonte: Sanità 24 – Il Sole24Ore

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