Inappropriatezza, frodi, errori. Quando si parla di malasanità tutto il mondo è paese. O meglio, molto mondo è paese, anche se non mancano esempi positivi. E’ quanto emerge dall’ampio report Ocse “Tackling Wasteful Spending on Health”, reso pubblico il 10 gennaio, che contiene una mappa dettagliata degli sprechi nel mondo della sanità. Il primo risultato che emerge dallo studio è che seguito di una breve pausa dopo la crisi economica, la spesa sanitaria è in aumento di nuovo nella maggior parte dei paesi dell’Ocse. Eppure, all’aumento della spesa non corrisponde un effettivo miglioramento delle condizioni delle persone. Infatti, denuncia sempre l’Ocse, una parte considerevole di questa spesa sanitaria apporta scarso o nessun contributo al miglioramento della salute delle persone. In alcuni casi, al contrario, si traduce addirittura in risultati di salute peggiori, con paesi che potrebbero potenzialmente spendere molto meno per l’assistenza sanitaria senza alcun impatto sulle prestazioni del sistema sanitario o sui risultati sanitari. Il rapporto esamina sistematicamente le strategie messe in atto da parte dei singoli paesi per limitare la spesa inefficace e rifiuti. Sul fronte clinico, si segnalano errori evitabili e cure di scarsa qualità. Ma si parla anche di strategie attuabili per ottenere una riduzione dei prezzi per articoli medicali e per orientare meglio l’uso di input costosi. Infine, la relazione esamina paesi esperienze di contenimento dei costi amministrativi e violazioni dell’integrità della salute.
Il dato economico più eclatante è che un quinto della spesa risulta mal gestito, con paesi come l’Italia (ma anche Francia, Australia, Belgio, Canada, Portogallo) in cui un accesso su 5 al PS è inappropriato. I costi di gestione dei sistemi sanitari coprono in media il 3% del totale, ma con variazioni da uno a sette tra i paesi membri. La penetrazione dei farmaci generici passa dal 10 all’80% tra i vari Stati ma in compenso il consumo di antibiotici è eccessivo ovunque (circa il 50% dell’impiego a uso umano è inappropriato) e genera fenomeni di antibiotico-resistenza. Un bambino su tre nasce da taglio cesareo quando questa pratica sarebbe consigliata in non più del 15% dei parti, in sette Paesi la percentuale supera il 35% e solo in quattro Paesi si avvicina al 15 per cento. Infine più del 10% della spesa per le cure in corsia è destinata a rimediare ad errori evitabili o a infezioni ospedaliere. Sono queste le maglie larghe degli sprechi in sanità individuati dal Rapporto Ocse «Tackling Wasteful Spending on Health».
Insomma aspettativa di vita e salute migliorano ovunque nell’area Ocse, ma la sfida della sostenibilità è ancora sul tavolo e la lotta è sempre più difficile, di fronte a cure innovative sempre più costose e al progressivo invecchiamento della popolazione. Ma una parte considerevole della spesa sanitaria, avverte l’Ocse, è eccessiva e oltre un quinto degli esborsi potrebbero e dovrebbero essere incanalati meglio. «Gli stessi benefici potrebbero essere conseguiti spendendo meno – spiega l’Ocse – ad esempio utilizzando più frequentemente i farmaci generici e deospedalizzando l’assistenza». D’altro canto se il 9% del Pil dell’area è destinato alla salute, tre quarti dei quali pagati dai bilanci statali, questi errori di valutazione inficiano pesantemente la sostenibilità dei sistemi sanitari nazionali.
Le strategie per contenere gli sprechi sono quindi doverose e i metodi per una corretta valutazione delle prestazioni in termini di costo-efficacia, secondo l’Ocse, devono seguire una doppia linea: evitare interventi e procedure cliniche che non producono miglioramenti di salute, promuovere cambiamenti che portino risparmi, incentivando ad esempio l’uso dei generici, sviluppando ruoli avanzati degli infermieri per la gestione dei pazienti cronici o assicurandosi che pazienti che non richiedono cure ospedaliere siano assistiti in setting più appropriati e meno esosi come le cure primarie.
Di fatto troppo spesso i pazienti non ricevono l’assistenza giusta, ripetendo esami diagnostici solo perché le informazioni non sono adeguatamente condivise tra i diversi attori che erogano le cure, o ancora peggio sono sottoposti a terapie che causano gravi complicazioni che potrebbero essere evitate.
Fari puntati anche sulla spesa farmaceutica, che da sola rappresenta il 20% della spesa sanitaria media nel area Ocse. Grandi quantità di medicinali non vengono utilizzati, troppe prescrizioni sono ridondanti, l’aderenza terapeutica da parte dei pazienti ha ampi margini di miglioramento e la gestione dei farmaci presenta buchi di inefficienza soprattutto in ospedale. In Australia ad esempio, da un’indagine sui medicinali finiti nel cestino è emerso che viene scartato un quantitativo di farmaci (il 70% soggetto a prescrizione) del valore pari a 2 mln di dollari australiani. Potenziali enormi risparmi sono poi attribuiti a un più largo ricorso a medicinali generici e biosimilari: per cinque Paesi europei più gli Usa è stato stimato che l’uso di farmaci equivalenti porterebbe un risparmio di 50 miliardi di euro entro il 2020.
Le best practice in giro per l’Ocse non mancano. Alcuni studi in Uk e Svezia hanno rivelato che lo spreco di medicinali si può ridurre del 30% seguendo più da vicino il paziente e permettendogli di ricorrere al counselling telefonico di farmacisti adeguatamente formati. Francia e Ungheria hanno introdotto incentivi per i medici sulla prescrizione di farmaci generici sulla base di schemi pay-for-performance. In Grecia, gli ospedali pubblici sono tenuti a raggiungere una quota del 50% dei farmaci generici sul volume totale dei farmaci somministrati. In Norvegia, l’acquisto centralizzato dei farmaci ha incluso 80 ospedali pubblici a partire dal 2016. La gamma di farmaci acquistati secondo questo sistema comprende una serie di oncologici ad alto costo, farmaci anti Epatite C , ormoni della crescita e immunostimolanti. Nel 2015 gli sconti ottenuti sui medicinali acquistati collettivamente sono stati in media del 30,4% rispetto ai prezzi medi spuntati dai Paesi vicini.
In media, i paesi Ocse spendono il 28% del totale per le cure in corsia. Ma l’assistenza ospedaliera è utilizzata più di quanto sarebbe clinicamente necessario. Tra ricoveri inappropriati, processi inefficienti – come ad esempio l’ammissione ospedaliera per interventi chirurgici che potrebbero essere eseguita su base ambulatoriale – degenze più lunghe del necessario e dimissioni ritardate a causa di mancati collegamenti tra ospedale e territorio. Il ricorso al Pronto soccorso è aumentato in 14 dei 19 paesi Ocse, raggiungendo una media di 31 accessi per 100 abitanti nel 2011, molti dei quali inappropriati. Secondo uno studio britannico, una migliore organizzazione delle cure primarie potrebbe ridurre dell’8-18% l’accesso al Ps con notevoli risparmi. La chiave di volta è il cambiamento organizzativo.
Link ricerca Ocse
http://www.oecd.org/publications/releasing-health-care-system-resources-9789264266414-en.htm