Chissà se la pazienza del popolo pubblico degli appalti è illimitata oppure, prima o poi, qualcuno si stancherà di essere trattato da gregge che deve solo attendere pazientemente che il “sistema” gli permetta di lavorare.
Non ho una riposta, ma solo speranze (di reazioni).
Correva l’anno 2012 quando il Governo Monti nel Decreto Legge 5/2012 introdusse l’art.6 bis del D.Lgs 163/2006, intitolato Banca dati nazionale dei contratti pubblici, disponendo: “Dal 1° gennaio 2013, la documentazione comprovante il possesso dei requisiti di carattere generale, tecnico-organizzativo ed economico-finanziario per la partecipazione alle procedure disciplinate dal presente Codice è acquisita presso la Banca dati nazionale dei contratti pubblici, istituita presso l’Autorità”.
La norma poneva una domanda che da tempo si attendeva: ha senso che un’Amministrazione chieda ad un’altra Amministrazione il rilascio di certificazioni pubbliche? Non possono essere condivisi in dati (ormai integralmente telematici)?
La notizia venne accolta con sommo gaudio, pareva una vera rivoluzione.
Nacque poco dopo l’indimenticabile AVCPASS.
L’allora AVCP con Deliberazione n. 111 del 20 dicembre 2012 ne impose l’obbligo dell’utilizzo dal 1 gennaio 2013 (poi prorogato a luglio 2014).
L’AVCP prometteva alle stazioni appaltanti di consentire “attraverso un’interfaccia web e le cooperazioni applicative con gli Enti Certificanti, l’acquisizione della documentazione comprovante il possesso dei requisiti di carattere generale, tecnico- organizzativo ed economico-finanziario per l’affidamento dei contratti pubblici”.
Per buoni 8 anni abbondanti tale promessa è rimasta lettera morta.
L’AVCPASS, se è mai funzionato, rispetto al possesso dei requisiti generali, finanziari e tecnici, è riuscita a convogliare nella pec del RUP i casellari giudiziali e poco altro (quando andava bene).
Dopo tanti anni di santa pazienza si è mosso il legislatore.
Il D.L. 77/2021 (vigente il 1 giugno 2021) all’articolo 49 comma 3 ha disposto: “Le amministrazioni competenti: a) assicurano la piena operatività della Banca Dati Nazionale dei Contratti Pubblici” ed all’articolo 53 che: “Presso la Banca dati nazionale dei contratti pubblici è istituito il fascicolo virtuale dell’operatore economico”.
Con comunicato del 29 novembre 2021 (6 mesi e mezzo dopo la vigenza della norma…) il Presidente ANAC comunicava a tutti che: “Già a partire dal mese di marzo 2022, sarà operativa la prima versione del FVOE che consentirà di svolgere le seguenti attività:
• verifica del mantenimento dei requisiti in fase di esecuzione su aggiudicatario e subappaltatori, come richiesto dal nuovo articolo 81, comma 1, del codice dei contratti pubblici;
• utilizzo del FVOE per tutte le procedure di affidamento;
• istituzione dell’Elenco degli operatori economici già verificati previsti dall’articolo 81, comma 4- bis, del codice dei contratti pubblici, al fine di anticipare il più possibile gli effetti positivi collegati alla possibilità di riuso della documentazione acquisita nel FVOE”.
Si, va bene, forse l’utilizzo dell’avverbio “già” era eccessivo, ma finalmente il popolo degli appalti da Marzo 2022 avrebbe potuto godere del Fascicolo Virtuale che avrebbe dato effettivo avvio alla Banca Dati Nazionale.
Il marzo 2022 è poi diventato febbraio 2023 (ma cosa sono in fondo 9 mesi pur di dare vita ad una Banca Dati che si aspettava da 12 anni?).
Ma finalmente a febbraio 2023 il FVOE è divenuto pienamente funzionante e in grado di offrire la possibilità di riutilizzare certificati pubblici già ottenuti da altre amministrazioni come pretendeva il legislatore?
Assolutamente no.
E siamo arrivati ai giorni nostri.
Il nuovo Codice degli Appalti per tutto il 2023 ha esteso l’applicazione, per le verifiche sul possesso dei requisiti degli Operatori Economici, dell’art.81 del D.Lgs 50/2016. E quindi si è esteso anche il non funzionamento della BDNA e del FVOE.
Dal 1 gennaio 2024 però…ecco cosa è accaduto il 1 gennaio 2024?
Una sorta di millenium bug.
Sapevamo, temevamo, potesse succedere, ma nessuno immaginava un disastro simile.
Il passaggio alle piattaforme certificate ha bloccato l’Italia (e non ha fatto funzionare né la BDNA, né il FVOE).
Dalla Banca Dati si rileva che al 20 gennaio sono state avviate in Italia 424 procedure contro una media nazionale ordinaria di oltre 430.000 mensili.
Nel gennaio 2024 sono state avviate in media meno dello 0,1 per cento delle procedure dell’anno precedente.
La favola dello smart cig che “scompare e riappare”
Tu sei dentro di me / Come l’alta marea / Che riappare e scompare portandoti via / Sei il mistero profondo /La passione l’idea / Sei l’immensa paura che tu non sia mia
Cantava Antonello Venditti nel 1991 e così cantano anche i funzionari pubblici pensando allo smart cig che sparisce il 1 gennaio 2024, salvo riapparire poco dopo il 10 gennaio 2024 grazie ad un Comunicato di Anac.
Dal 1 gennaio, con l’avvio delle piattaforme digitali certificate, il CIG non può essere più acquisito presso le piattaforme Anac ed è, di conseguenza abrogato lo smart cig.
Contemporaneamente è considerata abrogata la possibilità per le amministrazioni di acquistare beni e servizi di importo inferiore a 5 mila euro all’esterno del Mepa e portali certificati (come prevedeva la norma semplificazione sul cosiddetto microaffidamento, disciplinata dal comma 450 dell’art.1 della L.296/2006)
Un “uno-due” al corpo da mettere knock out anche Cassius Clay.
Il primo colpo è stato sferrato dal Supporto Giuridico del Ministero delle Infrastrutture con Parere 2196/2023 nel quale viene disposto che l’art.25 del D.Lgs 36/23 non prevede deroghe ed obbliga quindi all’acquisto tramite le piattaforme certificate da un euro in su.
Il secondo colpo arriva da parte del Comunicato Anac del 10 gennaio 2024 nel quale il Presidente dichiara che:
“Il codice dei contratti pubblici non prevede ipotesi di deroga o di esenzione dall’applicazione delle disposizioni sulla digitalizzazione con riferimento a fattispecie particolari di affidamenti o a determinate soglie di importi”.
La legge ha abrogato smart cig e legittimità dell’acquisto all’esterno dei portali con decorrenza 1° gennaio 2024.
È finita, Ko. Eppure.
Eppure Anac toglie ed Anac dà.
Il comunicato del 10 gennaio 2024 prosegue dichiarando che: “L’Autorità, al fine di favorire le Amministrazioni nell’adeguarsi ai nuovi sistemi che prevedono l’utilizzo delle piattaforme elettroniche e garantire così un migliore passaggio verso l’amministrazione digitale, sentito il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, ritiene in ogni caso necessario chiarire che allo scopo di consentire lo svolgimento delle ordinarie attività di approvvigionamento in coerenza con gli obiettivi della digitalizzazione, l’utilizzo dell’interfaccia web messa a disposizione dalla piattaforma contratti pubblici – PCP dell’Autorità, raggiungibile al link https:// www.anticorruzione.it/-/piattaforma-contrattipubblici , sarà disponibile anche per gli affidamenti diretti di importo inferiore a 5.000 euro fino al 30 settembre 2024”.
Riapparso lo smart cig (sotto forma di PCP) e la possibilità di acquistare con semplici mail fino a 5 mila euro.
Un attimo. Ma se “il codice dei contratti pubblici non prevede ipotesi di deroga o di esenzione”, può Anac con proprio Comunicato “al fine di favorire le amministrazioni” ed al fine di “consentire lo svolgimento delle ordinarie attività di approvvigionamento in coerenza con gli obiettivi della digitalizzazione” derogare alla Legge e disporre prescrizioni differenti?
A tale domanda verrebbe voglia di rispondere che è meglio farsi gli affari propri e godere di questo inaspettato seppure temporaneo (fino al 30 settembre 2024) privilegio.
E allora godiamo ponendoci, solo a bassa voce, un’altra domanda: ma l’Italia è ancora Stato di Diritto?
Lo stato di diritto pretenderebbe che l’agire dello Stato fosse sempre vincolato e conforme alle leggi vigenti.
La Costituzione definisce una gerarchia delle fonti del diritto.
In tale gerarchia dove si collocano i comunicati del Presidente di un’Autorità di Vigilanza? E che succede in un Paese se un’Autorità può disporre con Comunicati del Presidente regole contra legem?
E’ anarchia.
Ovvero l’assenza di reazioni del Governo a fronte di abusi di potere da parte di chi avrebbe il dovere/potere di far rispettare le regole. E’ disordine, confusione, ambito nel quale ciascuno agisce a proprio arbitrio.
Si potrebbe dire: ma cosa doveva fare Anac?
Accorgersi prima del problema. Capire prima (come sentivamo tutti dentro al cuore) che i portali non avrebbero funzionato dal 1 gennaio 2024. Prorogare la vigenza di una norma prima che venisse bloccata l’Italia e costretti milioni di persone (il famoso “popolo pubblico”) a lavorare per ore davanti ad un pc per ottenere qualcosa (il fatidico cig per un banalissimo affidamento diretto) che fino a qualche mese fa (ora pare un miraggio) si otteneva in una manciata di minuti.
Cosa si può fare ora?
Maurizio Greco, abile provveditore, ha tracciato, di recente, la via in un proprio articolo su una rivista specializzata.
Non so se quella sia la via giusta, ma è una via.
Le Istituzioni devono coinvolgere nelle proprie azioni chi lavora.
Non è possibile che questo paese venga costantemente governato da persone e istituzioni che nella propria vita non hanno mai fatto un appalto, non abbiamo idea di cosa significhi chiedere un cig o fare le verifiche sul fascicolo virtuale.
Secondo Anac (comunicato del 10 gennaio 2024) “Le nuove previsioni rappresentano una rivoluzione nel mondo della contrattualistica pubblica che, superata l’iniziale fase di necessario adeguamento, apporterà notevoli benefici in termini di semplificazione, razionalizzazione e velocizzazione delle procedure, con evidente e apprezzabile risparmio di costi e tempi”.
Questo è indubbio e condivisibile, ma quell’“iniziale fase di necessario adeguamento” doveva essere gestita meglio. Si deve prevedere una fase transitoria nella quale solo alcune amministrazioni “campione” vengono chiamate a verificare il funzionamento del nuovo sistema ed a coordinarsi con i gestori dei portali telematici per renderli pienamente funzionanti, prima che tutti entrino a pieno regime.
Il popolo degli appalti non vuole fare la rivoluzione, ma ha diritto di:
• lavorare con strumenti che funzionino;
• lavorare con regole che non cambino ogni giorno (abbiamo avuto tre codici degli appalti in 17 anni, in conseguenza della quattordicesima (Governo
Berlusconi), diciassettesima (Governo Renzi) e diciannovesima (Governo Meloni) legislatura);
• lavorare con regole che non cambino ogni giorno con lo svegliarsi di una qualunque Istituzione italiana;
• vivere in un Paese nel quale se un’Istituzione comincia ad inventare regole ci sia una reazione che consente di tornare allo stato di diritto ponendo fine all’anarchia;
• avere Istituzioni che, se un legislatore impone loro un’incombenza (nascita della Banca dati Nazionale o nascita del Fascicolo Virtuale dell’Operatore Economico), lavorino fattivamente per ottenere il risultato preteso dal legislatore e, se tale obiettivo si rende per qualunque motivo irraggiungibile, dichiarino apertamente la propria incapacità a raggiungere il risultato, esplicitandone le motivazioni;
• avere istituzioni che, quando sovrintendono la predisposizione di maschere destinate ad essere pubblicate on line nei portali, diano indicazioni che rendano sensato ciò che si trova scritto (ad esempio nel PCP quando si chiede un cig tra le causali utilizzabili si trova anche “Affidamento diretto sopra la soglia minima e sotto la soglia comunitaria, settoriale” accompagnato da un riferimento normativo insensato.
Però noi diamoci da fare per stare al passo con i tempi
Il popolo pubblico ha tutte le ragioni del mondo, ma deve anche aiutarsi un minimo.
Dal 17 luglio 2020 (data di vigenza del primo decreto semplificazioni) il legislatore ha alzato la soglia dell’affidamento diretto ad importi un tempo impensabili.
Eppure.
Eppure una sentenza del TAR Campania, sede di Salerno, di qualche giorno fa (n.147/2023) ha messo nel panico non poche amministrazioni lasciando dedurre dall’analisi della massima che il Collegio abbia ritenuto non ribassabile il costo della manodopera, in applicazione di quanto prescritto dal comma 14 dell’art.41 del nuovo Codice.
Leggendo, tuttavia, la sentenza si deduce che, alla base della decisione, sta la scelta di un’amministrazione di realizzare una procedura negoziata per affidare un servizio dell’importo pari a € 59.183,21 (al netto dell’iva), nel quale veniva indicato come non ribassabile (a pena di esclusione) il costo della manodopera.
La questione rilevante da approfondire a questo punto non è tanto se il costo della manodopera sia ribassabile o meno alla luce del (sicuramente infelice) comma 14 dell’articolo 41, quanto piuttosto domandarsi come possa essere che ancora un ente pubblico autorizzato a fare affidamenti diretti da oltre tre anni per appalti di quel valore, abbia scelto di fare una procedura che prevede, al posto della buona vecchia richiesta di preventivi ed aggiudicazione, la pubblicazione di un avviso, l’invio di una lettera di invito, la nomina di una commissione giudicatrice, la valutazione di documentazione amministrativa, tecnica ed economica, la valutazione dell’anomalia dell’offerta dalla quale è conseguito un ricorso al TAR e via così.
Come può essere? Che succede ragazzi? Non vi fidate del sistema?
Io vi capisco, ma vi sprono alla reazione. Chi nasce nel mondo di “Alice del paese delle meraviglie” (l’affidamento diretto) deve imparare a viverci felicemente e non può continuare a godere nello sguazzare della complessità di procedure che dovrebbero riguardare solo appalti di importo tre volte più alto rispetto a quello posto in gara dal povero comune campano.
Vittorio Miniero – Avvocato
Tratto da TEME 1-2/2024