Come noto il nuovo Codice dei contratti pubblici è suddiviso i 5 Libri, di cui il IV° rubricato “Del Partenariato Pubblico-Privato e delle Concessioni”. Detto titolo è esemplificato di un percorso che il Legislatore degli appalti ha intrapreso in questi anni. Se prendiamo infatti il 1° Testo Unico in materia di contratti pubblici (D.Lgs.n. 163/2006) e ne scorriamo l’indice, ben c’accorgiamo che l’istituto del Partenariato pubblico-privato (noto anche come PPP) non appare indicato in alcun articolo di detto Codice, che si limita a regolamentare le concessioni di servizi (art. 30) e di lavori (artt. 142-151), nonché il project financing e le società di progetto (artt. 153-156).
La situazione muta nel 2° Codice appalti (D.Lgs.n. 50/2016), che appositamente dedica all’istituto delle concessioni la Parte III mentre regolamenta, nella successiva Parte IV°, il Partenariato pubblico-privato, le Società in house e la figura del Contraente generale. Anche in questo caso, tuttavia, il titolo ‘dice molto’, in quanto si parla di ‘Partenariato pubblico-privato e Contraente generale e altre modalità di affidamento’ ove, con il termine “altre”, il Legislatore sembra voler definire gli istituti del PPP e Contraente generale come vere e proprie “modalità di affidamento” e NON, invece, come dei particolari tipi di contratti pubblici. Non solo in quanto l’art. 180 dello stesso D.Lgs.n. 50/2016 definisce poi il PPP come “un contratto a titolo oneroso [in cui] i ricavi di gestione dell’operatore economico provengono dal canone riconosciuto dall’ente concedente e/o da qualsiasi altra forma di contropartita economica ricevuta dal medesimo operatore, anche sotto forma di introito diretto della gestione del servizio ad utenza esterna”.
Il PPP non viene dunque limitato in un ‘numero chiuso’ di differenti tipologie contrattuali ma definito, da un lato, come una “modalità di affidamento” (ad esempio “in house”) mentre, dall’altro, vengono legittimate tutte le possibili modalità pattizie con qualsivoglia “contropartita economica” disposta a favore dell’operatore privato. Di quest’ultima tipologia, quindi, fanno parte la Concessione – che è un contratto in forza del quale una P.A. affida ad un operatore privato la realizzazione di un’opera e/o l’esecuzione di un servizio non a suo favore ma a quello di un terzo, a fronte del diritto di percepire un corrispettivo da parte di detto terzo che, qualora nel tempo risulti estremamente rilevante, può portare anche all’obbligo di versamento di un canone concessorio dal privato alla P.A. concedente – la Finanza di progetto – che è un contratto in cui un privato investe asset per la realizzazione di un’opera pubblica che verrà successivamente “sfruttata” per consentire la remunerazione degli asset investiti – il Contratto di disponibilità – in cui il privato costruisce e/o mette a disposizione di una P.A. un immobile a fronte di una remunerazione rappresentata o da un canone versato (ma solo a fronte dell’effettivo utilizzo), o quale contributo della P.A. all’atto di edificazione dell’immobile o, infine, quale prezzo di trasferimento per la cessione finale di detto immobile. Stante dunque l’assoluta libertà convenzionale riconosciuta all’istituto del PPP, la differenza che rinviene nel Codice del 2016 sta nella diversa modalità di remunerazione dell’operatore economico, in quanto la Concessione viene definita come quel contratto in cui al concessionario è riconosciuto “unicamente il diritto di gestire le opere [o “i servizi”]”, mentre tra i PPP rientrano (come visto) la finanza di progetto, la concessione di costruzione e gestione, la concessione di servizi, la locazione finanziaria ed il contratto di disponibilità nonchè “qualunque altra procedura di realizzazione in partenariato di opere o servizi che presentino le caratteristiche di cui ai commi precedenti” (art. 180, comma 8 del D.Lgs.n. 50/2016), senza quindi alcuna limitazione di forma né definizione di modalità remunerativa.
Da questa lunga digressione si può dunque trarre una prima importante conclusione. Partendo infatti dalle definizioni di PPP e di Concessioni non vi è chi non veda fra dette figure un rapporto di “genere” a “specie” tale per cui le concessioni altro non sono che una particolare tipologia di PPP, di cui condividono i tratti caratterizzanti (l’allocazione del rischio operativo ecc.) ma con la peculiarità che la remunerazione discende, nelle concessioni, “unicamente” dal diritto di gestione delle opere/servizi (integrato eventualmente da un “prezzo”).Questo particolare rapporto di “genere” a “specie” ha finalmente trovato la sua definitiva consacrazione del nuovo Codice dei contratti pubblici che, come visto, inverte la classificazione degli istituti ed intitola appunto il IV° Libro “Del Partenariato Pubblico-Privato e delle Concessioni” di cui queste ultime, appunto, non sono altro che una specifica tipologia di PPP.
Ma l’aspetto ancor più sorprendente di detta nuova tassonomia non è solo l’aver ricompreso le concessioni fra le figure di PPP, quanto piuttosto la definizione che dello stesso Partenariato dà il Legislatore del 2023, che non parla più di “contratti” (come faceva il D.Lgs.n. 163/06) né “di modalità di affidamento” (come invece il successivo D.Lgs.n. 50/16) ma che definisce il PPP come una “operazione economica” (art. 174, rubricato appunto “Nozione”) !! In effetti, potendo come visto il Partenariato pubblico-privato essere definito secondo una duplice veste, sia di tipologia contrattuale (secondo le diverse casistiche) che di modalità procedimentale (affidamento “in house” o gare per l’aggiudicazione di concessioni ecc.), la sua più corretta e ‘moderna’ definizione risulta dunque di “modello procedimentale/contrattuale”, che si può diversamente declinare a seconda delle differenti situazioni in cui ci si trova nonchè delle esigenze da soddisfare.
La natura
Che poi il PPP sia una “’operazione economica” è una definizione tanto “dirompente” in quanto non lo si intende più connotare sotto l’aspetto ‘soggettivo’ (l’ente appaltante, il concedente, il promotore ecc.) né “oggettivo” (solo contratti di concessione, di locazione finanziaria, di disponibilità ecc.), ma lo si vuole caratterizzare ed individuare sotto il profilo della sua sola “natura economica”.
Pertanto si potrà avere un PPP tutte le volte in cui la dinamica del rapporto economico fra le Parti risulta caratterizzata dai seguenti profili (art. 174, comma 1):
a) è stato sottoscritto un contratto di ‘lunga durata’ che persegue un “interesse pubblico” come risultato;
b) la copertura dei fabbisogni finanziari per la realizzazione dell’oggetto contrattuale deve provenire “in misura significativa” dalla parte privata;
c) alla stessa parte privata spetta poi il compito di “realizzare e gestire” il progetto, mentre a quella pubblica la definizione degli obiettivi e la verifica del loro raggiungimento;
d) il rischio operativo deve (di conseguenza) essere allocato in capo al soggetto privato.
Peraltro il “superamento” delle rigide categorie entro cui finora venivano classificati i PPP alla luce dei precedenti Codici è (anche) la conseguenza della definizione dei principi di cui ai primi articoli del D.Lgs.n. 36/2023 fra cui s’annoverano, oltre al principio “del risultato” (art. 1), quello di “auto-organizzazione amministrativa” (art. 7) ma, soprattutto, il “principio di autonomia contrattuale” (art. 8) in forza del quale le Pubbliche Amministrazioni possono oggi “concludere qualsiasi contratto, anche gratuito”. Detta libertà convenzionale non deve apparire “scontata” in quanto, fino all’espressa codificazione di cui al citato art. 8, le Amministrazioni pubbliche non era affatto libere di sottoscrivere qualsiasi tipologia contrattuale se non quelle espressamente codificate dal D.Lgs.n. 50/2016 e/o da altre (eventuali) normative di settore.
Le novità normative
Alla luce di tutto quanto sopraesposto si può dunque affermare come il D.Lgs.n. 36/2023 abbia oggi distinto due grandi categorie di contratti pubblici: l’Appalto (Libro I°) ed il Partenariato pubblico-privato (Libro IV°), che si candida ad essere quindi ‘tutto quello che non è’ un appalto pubblico, con la caratteristica di non essere limitato al rispetto di alcuna forma tipizzata. Ciò in quanto la differenza fra l’appalto e le (variegate) figure di PPP si rinviene – in fondo – solo in ragione della diversa natura economica delle possibili tipologie contrattuali di partenariato.
Così infatti – se nell’appalto la P.A. “paga” un operatore economico affinché eroghi a suo favore una prestazione (sia questa la realizzazione di un’opera, la fornitura di beni e la somministrazione di servizi pubblici), configurandosi dunque come un rapporto “passivo” (la P.A. riceve una prestazione) di natura tutta “interna” (la prestazione è svolta a favore esclusivamente della
P.A.), i PPP regolamentano invece tutti gli altri rapporti che possono intercorrere fra il pubblico ed il privato, di qualsivoglia genere e natura, senza limitazione di modalità remunerativa ma con l’espresso vincolo che sia il privato a realizzare e gestire l’attività contrattualmente dedotta, quale logica conseguenza che la maggioranza dell’investimento grava su di lui, che
quindi si deve accollare il rischio operativo (in tutte le sue diverse declinazioni).
Da quanto sopradetto ne consegue un’importantissima novità introdotta dal D.Lgs.n. 36/2023, ovvero il “superamento” del limite del 49% come previsto dall’art. 180, comma 6 del precedente Codice, in forza del quale l’investimento pubblico in un Partenariato pubblico-privato in nessun caso poteva superare una specifica (e ben determinata) soglia, inizialmente prevista del 30% per poi salire fino al 49% (D.Lgs.n. 56/2017). Il nuovo Codice appalti si limita a prevedere – come detto – l’espresso obbligo di copertura dei fabbisogni finanziari “in maniera significativa” in capo alla parte privata, rinviando per il resto espressamente ai contenuti delle decisioni Eurostat (art. 175, comma 9) nonchè lasciando alla piena autonomia alle parti la definizione del contenuto convenzionale, in ossequio al principio di “autonomia contrattuale” di cui all’art. 8 sopra ricordato. Per il resto il D.Lgs.n. 36/2023 non introduce particolari novità nella trattazione dell’istituto del PPP, eccezione fatta per un’evidente semplificazione del precedente art. 180 (ora artt. 174) ma, soprattutto, per l’introduzione di un articolo specifico sulla programmazione e valutazione preliminare dei PPP (art. 175).
Viene così disposto come oggi, per procedere ad un Partenariato pubblico-privato (di qualunque natura esso sia) occorre che le Pubbliche Amministrazioni adottino un Programma triennale che indichi le “esigenze pubbliche” che si intendono soddisfare “attraverso forme di partenariato”. Il ricorso al PPP deve poi essere preceduto da una ‘valutazione preliminare di convenienza e fattibilità’, volta ad accertare se il progetto i) sia idoneo ad essere finanziato da risorse private, ii) sia capace di generare soluzioni innovative, iii) abbia correttamente allocato il rischio operativo nonchè, infine, iv) vi sia capacità d’indebitamento e disponibilità di bilancio della P.A.
Disposizione di chiusura ma tuttavia fondamentale -stante la libertà contrattuale oggi concessa alle parti – è che la P.A., allo scopo di poter assumere una decisione legittima e del tutto scevra da possibili contestazioni, prima di procedere confronti e valuti i costi e benefici di ricorrere ad un PPP rispetto a quelli d’affidare un contratto d’appalto, per una durata contrattuale equivalente al fine di rendere comparabili le due diverse opzioni. Tale obbligo accertativo, di fatto, assume il significato di definitivamente equiparare – agli occhi del Legislatore e, di conseguenza, anche di tutte le PP.AA. nonchè degli operatori economici – i contratti di appalto con tutte le possibili figure di partenariato pubblico-pubblico. Equiparazione che quindi non può che definitivamente “sdoganare” la figura del Partenariato pubblico-privato (che nel Codice del 2006 non era neppure presente!), a cui quindi non potrà che arridere un futuro gioioso.
Andrea Stefanelli – Foro Bologna